L’inquinamento da microplastiche e le lavatrici

Ultimo aggiornamento: 27.04.24

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Una buona parte dell’inquinamento che avvelena mari e oceani, è prodotto dagli scarichi dei lavaggi delle nostre lavatrici.

 

Secondo uno studio scientifico, il 35% delle microplastiche che inquinano mari e oceani provengono dagli scarichi delle nostre lavatrici. Oggi gli indumenti sintetici rappresentano ben il 60% della produzione tessile mondiale e durante i lavaggi dei suddetti capi, nel cestello vengono rilasciate grandi quantità di fibre che vanno a contaminare le acque.

 

Le microplastiche e i ricercatori

Quando si sente parlare di inquinamento da microplastiche, si tende spesso a guardare all’ultimo anello della catena ambientale che subisce il danno, ovvero il mare e gli oceani. Sono pochi invece coloro che cercano le cause a monte della contaminazione.

Una ricerca pubblicata recentemente sulla rivista “Science of the Total Environment”, effettuata dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche e la Fondazione AquaLAB, ha analizzato il problema all’origine.

Lo studio si è concentrato principalmente su un grande impianto di depurazione e di trattamento dei reflui, analizzando le sostanze e i materiali che vanno a finire nelle acque dolci.

Secondo la IUCN (International Union for Conservation of Nature), circa il 30% delle microplastiche che inquinano gli oceani, viene trasportato dalla fonte in mare aperto sotto forma di micro frammenti. La provenienza di questi scarti è da ricercare negli scarichi dei lavaggi delle lavatrici.

 

 

I residui plastici che finiscono nei depuratori

Come abbiamo anticipato, una buona percentuale dei micro frammenti plastici che inquinano le acque, sono rappresentati dalle fibre rilasciate dagli indumenti sintetici durante i lavaggi. Questi scarti vengono smaltiti tramite gli scarichi domestici, per poi finire negli impianti di depurazione.

Un’altra parte di microplastiche inquinanti (circa il 28%), viene prodotta dai pneumatici logori, le cui particelle raggiungono il mare trasportate dal vento e dai reflui stradali. Anche gli scarti dei cosmetici fanno la loro parte e vanno a finire nei depuratori, infatti le microsfere contenute in diversi prodotti rappresentano il 2% dei frammenti plastici totali.

Un altro studio condotto su tre depuratori olandesi che scaricano in mare e nei fiumi, ha rilevato un’alta concentrazione di particelle microplastiche su tutti i campioni d’acqua analizzati.

Tuttavia, il “lato positivo” dei depuratori di costruzione più recente, consiste nel fatto che tali impianti riescono almeno a evitare che otto frammenti su dieci raggiungano il fiume. È meglio non osare immaginare che cosa succede nelle aree in cui gli impianti di depurazione sono obsoleti o addirittura inesistenti. 

Per avere un’idea chiara di quella che è l’attuale situazione nel nostro Paese, basti sapere che l’Italia è stata recentemente sanzionata dall’Europa per non aver ancora terminato la costruzione di impianti di depurazione e fognature in più di 70 Comuni.

 

Le lavatrici

Anche se siamo convinti di aver acquistato la migliore lavatrice presente sul mercato, una volta che facciamo partire un programma di lavaggio, difficilmente la nostra preoccupazione volge alle particelle microplastiche che possono finire in mare.

Eppure, che ci pensiamo oppure no, quel lavaggio darà il via a un lungo viaggio di migliaia di micro fibre plastiche verso gli oceani. Secondo l’ICAC (International Cotton Advisory Committee) e la FAO (Food and Agriculture Organization), nel ventennio 1990/2010 il consumo di fibre sintetiche è aumentato vertiginosamente del 300%, passando da 16 a 42 milioni di tonnellate.

Attualmente non esiste un rapporto scientifico in grado di quantificare l’esatto numero di microplastiche che dopo il lavaggio di una maglia o di un paio di jeans vanno a finire nelle acque dei fiumi; tuttavia i dati rilevati finora sono alquanto preoccupanti.

Davanti a un problema ecologico di questa entità, diverse grandi aziende di abbigliamento stanno cercando di trovare delle soluzioni prima che sia l’Europa a intervenire sul campo.

Aziende come Benetton e l’associazione di marchi EOG (European Outdoor Group) per esempio, hanno cominciato da tempo a condurre delle ricerche in merito.

 

I rischi per l’uomo

La contaminazione da frammenti microplastici nei depuratori delle acque reflue, potrebbe rivelarsi dannosa anche per l’uomo stesso e non solo per i mari e per gli oceani. Le scorie infatti potrebbero ritornare nelle nostre case come un boomerang attraverso la catena alimentare, ovvero tramite l’assorbimento di queste da parte delle specie ittiche che arrivano sulle nostre tavole. 

La contaminazione può avvenire anche tramite i fanghi di depurazione utilizzati per fertilizzare i campi. Su possibili effetti sul corpo umano, non sono ancora pervenuti dei dati esaustivi; tuttavia dall’esito di alcuni test effettuati su dei molluschi, sono trapelate delle informazioni di grande rilievo. 

Lo studio ha dimostrato come alcuni frammenti microplastici riescano a penetrare nell’organismo degli animali. Le scorie entrano nel sistema circolatorio, riescono a insediarsi in alcuni organi e si accumulano nelle cellule.

Una delle ipotesi più accreditate in merito alla tossicità delle microplastiche è connessa soprattutto agli agenti contaminanti adsorbiti sulla loro superficie e ai plasticizzanti che vengono utilizzati nel loro ciclo di produzione. In tal modo le microplastiche fanno da vettori per le sostanze tossiche, esponendo di conseguenza gli organismi viventi a seri rischi di mutazioni genetiche.

E la ricerca continua…

Nonostante i risultati preoccupanti di alcuni test, ci sono ancora diversi punti da approfondire, soprattutto per comprendere meglio quali sostanze nocive riescono effettivamente a intrufolarsi nella catena alimentare.

Andrea Binelli, Professore Ordinario presso il Dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano, esperto ricercatore nell’ambito di ecotossicologia acquatica, ci tiene a non creare allarmismi. 

Lo scienziato afferma che le prove di esposizione eseguite in laboratorio su alcuni soggetti animali, contenevano delle concentrazioni di frammenti microplastici molto superiori rispetto ai normali livelli ambientali.

Questo perché ai ricercatori interessava capire se le scorie fossero in grado di penetrare i modelli biologici sottoposti a test, quale fosse il loro movimento all’interno degli organismi e soprattutto quale fosse la loro azione tossicologica.   

Ora il passo successivo sarà quello di capire qual è il comportamento e il livello di pericolosità delle microplastiche in ambienti altamente esposti a contaminazione.

Altri due ricercatori dell’università di Portsmouth, Kathryn Nelson e Paul Farrell, hanno effettuato dei test su dei mitili. 

Lo studio ha dimostrato che le microplastiche  assorbite dai molluschi sono in grado di penetrare nel sistema circolatorio dei loro predatori, diventando così un serio rischio all’interno della catena alimentare. Ciò non fa altro che esporre l’alimentazione umana e quella animale a una seria minaccia, specialmente in merito ai molluschi marini edibili.

 

 

 

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